Così cita una nota enciclopedia chiedendo cos’è una relazione interpersonale:
“Tra due o più persone intercorre un rapporto chiamato relazione interpersonale nel quale si possono condividere sentimenti (amore, simpatia e amicizia) o anche solo passatempi condivisi e/o impegni sociali e/o professionale.
Questa condivisione è fondata sullo scambio di parole che danno senso e significato alla relazione e la riempie di contenuti.
Spesso sono chiamata a fare da osservatrice alla relazione che nasce dalla condivisione di questi contenuti e oggi mi piacerebbe riflettere su quanto le persone molto poco ascoltano cercando di capire il significato delle parole dette, a volte mi accorgo che mancano proprio i significati, si parlano discutendo delle reciproche proiezioni sull’altro senza minimamente soffermarsi sul contenuto delle parole dette. Accade qualcosa che mette la relazione e l’altro in secondo piano. La povertà della comunicazione si traduce in povertà dell’intelligenza cadendo nel doloroso soffocamento delle emozioni.
Ludwing Wittgenstein ha scritto ” I limiti del linguaggio significano i limiti del mio mondo” , aggiungerei che la caduta del linguaggio è in qualche modo la caduta dell’uomo.
Questa riflessione, valida a tutti i livelli della gerarchia sociale, la troviamo ad esempio quando per ragioni economiche, familiari o sociali non si dispone di adeguati strumenti linguistici; quando le parole fanno paura e più di tutto quelle parole che parlano di paura stessa: fragilità, differenza, tristezza. Quando manca la possibilità di nominare le cose e le emozioni manca un meccanismo fondamentale di controllo sulla realtà e su se stessi.
Oggi più che mai assistiamo alle conseguenze minacciose di questo continuo impoverimento, la violenza incontrollata è uno degli esiti possibili, se non probabili, di questa carenza. I ragazzi sprovvisti delle parole per dire i loro sentimenti di tristezza, di rabbia, di frustrazione hanno un solo modo per liberarli e liberarsi di sofferenze a volte insopportabili: La Violenza Fisica.
Chi non ha i nomi per la sofferenza la agisce, la esprime volgendola in violenza, con esiti spesso drammatici.
Nelle scienze cognitive questo fenomeno – la mancanza di parole e quindi di idee e modelli di interpretazione della realtà, interni e esterni- è chiamato ipocognizione.
E’ un concetto elaborato dall’antropologo Bob Levy negli anni 50, a seguito di gli studi condotti nel tentativo di individuare la ragione dell’altissimo numero di suicidi registrati a Thaiti.
Levy scopri che i thaitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale – in psicoanalisi si parlerebbe di linguaggio dell’inconscio- e pertanto quando lo provavano non erano in grado di identificarlo, riconoscerlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense e ( per loro) incomprensibili, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio
Tutti noi possiamo verificare ogni giorno che lo stato di salute delle parole è quanto meno preoccupante, la loro capacità di indicare con precisione cose e idee gravemente menomata.
Le parole dovrebbero aderire alle cose, rispettarne la natura.
Socrate raccomanda a Critone negli ultimi istanti della sua vita ” Tu sai bene che il parlare scorretto non solo è per se cosa sconveniente, ma fa male anche alle anime”.